Mangiare a tavola con la famiglia o con i compagni è un’attività complessa che richiede diverse abilità. Bisogna riuscire a controllare la postura e coordinare i gesti, sintonizzarsi sui tempi del pasto, utilizzare le posate, tenere a mente le norme di base della buona educazione, mangiare ciò che mangiano gli altri e perfino partecipare alla conversazione, cioè vivere il pasto come momento conviviale. I bambini impiegano anni ad acquisire queste competenze.

Cercando di comprendere meglio l’esperienza del pasto condiviso nell’infanzia, due spunti di riflessione interessanti si possono trovare nella letteratura per l’infanzia, affollata di piccoli ribelli fin dall’Ottocento, quando il medico tedesco Heinrich Hoffman inventò, per suo figlio di tre anni, i personaggi di Pierino Porcospino (ha le unghie smisurate che non furon mai tagliate), Gasparino (Dopo un giorno Gasparino / S’era fatto magrolino. /Ma a gridar ricominciò: / «La minestra, non la vo’!) e Filippo che si dondola (Filippo, nel cader, con sè trascina / La tovaglia coi piatti, le stoviglie, / Le salse, le vivande, le bottiglie.).

Nonostante si tratti di filastrocche-babau, scritte con l’intento di illustrare le terrificanti conseguenze della disobbedienza, questi componimenti hanno il raro merito di giocare la carta dell’umorismo; non è un caso se fu proprio l’irriverente Mark Twain, nel 1891, a tradurre Struwwelpeter in inglese. Sua figlia, Clara Clemens, dichiarò: “Fu l’irrispettoso spirito di contraddizione dei versi a colpire mio padre.”

I ribelli del Novecento
Nel 1912 nasce un ribelle letterario che dalla sua monelleria esce finalmente vincente: è Giannino Stoppani, protagonista de Il Giornalino di Gian Burrasca, che svela i vuoti formalismi di un mondo adulto troppo preoccupato delle apparenze. Scherzi e monellerie gli servono a deriderlo, a rivelarne la falsità, come quando Giannino scopre che la minestra del venerdì è fatta con la risciacquatura dei piatti ed escogita uno stratagemma per smascherare il cuoco, ottenendo finalmente, in sostituzione, una squisita pappa col pomodoro.

In tv, nella seconda metà del Novecento, la messa in discussione della tavola tradizionale è affidata a Pippi Calzelunghe (il romanzo era uscito in Svezia nel 1945) mentre nel fumetto il volto della ribellione è quello di Mafalda, che porta lo scontro a un livello più alto: l’azione si trasforma in pensiero, la monelleria matura in una raffinata e ironica contestazione verbale.

Cosa vogliono questi piccoli ribelli? Chiedono forse di sovvertire la società? Di mangiare sotto il letto o di ingozzarsi di cioccolata? Nient’affatto. L’attacco è sempre rivolto all’ipocrisia, alle convenzioni ereditate acriticamente, a quegli adulti troppo preoccupati di viaggiare sui binari del consenso sociale per mettersi in ascolto dei bambini e soddisfarne il bisogno fondamentale: quello di essere accolti a tavola in un clima positivo e rispettoso, allegro e sereno, dove abitudini e sapori sono il risultato coerente di una cultura sentita, viva e condivisa. Rivendicano il diritto a una tavola che sia davvero luogo d’incontro e di piacevole condivisione, dove l’adulto si curi tanto dell’assunzione di nutrienti quanto del benessere dei commensali perché il cibo non è un farmaco da somministrare ma una cultura da trasmettere. La ribellione è uno smascheramento: il re è nudo, il messaggio educativo è apparenza anziché sostanza e il bambino lo percepisce e lo denuncia. Come insegna il pedagogista danese Jesper Juul, non esistono bambini che hanno problemi col cibo; esistono bambini che esprimono i loro problemi attraverso il cibo.

La domesticazione del bambino selvatico
Un altro tema interessante che emerge dall’analisi dei grandi testi letterari per l’infanzia è il conflitto tra natura e cultura. La cucina del passato non privilegiava il cibo naturale, spesso ritenuto malsano, e diffidava degli alimenti freschi e crudi. Si pensava che la frutta andasse consumata con moderazione, cotta oppure accompagnata con cibi salati e stagionati (formaggio e pere, prosciutto e melone) e gli alimenti freschi erano spesso sottoposti a cotture elaborate e conditi riccamente con le spezie, fino a renderli irriconoscibili.
Negli anni del boom economico fu proprio questa antica resistenza verso il cibo naturale a convincere le madri italiane ad accogliere con fiducia affettati in vaschetta, margarina, merendine, bibite gassate, biscotti confezionati, carne in scatola, formaggini, dadi. Le pubblicità di questi prodotti affollavano anche le pagine dei fumetti.

Il conflitto tra natura e cultura è quello che vive ogni bambino nei primi anni di vita. Nella prima infanzia mangia assecondando il solo istinto ma poi, a poco a poco, viene accolto a tavola – simbolo della comunità umana – e per godere del privilegio della convivialità è costretto a pagare un prezzo elevato. Deve rinunciare al diritto a mangiare solo quando ha fame e con un adulto a sua completa disposizione, deve imparare ad adattarsi ai linguaggi e ai tempi della comunità in cui vive, deve comprenderne le regole e i simboli, fidarsi e affidarsi, rinunciare al sé per diventare “noi”.
Sacrificando la natura a favore della cultura, è come se in pochi mesi ripercorresse i passi dei nostri antenati preistorici, che inizialmente si nutrivano dove riuscivano a trovare cibo ma poi impararono a fare gruppo e a riunirsi intorno al fuoco per scaldarsi, proteggersi e cuocere il cibo, trovando così un tempo e un luogo per stare insieme, comunicare, costruire identità di gruppo e pensiero, diventare comunità, costruire civiltà.
Chi pensa che mangiare a tavola sia una forzatura, però, si sbaglia: è un’abitudine caratterizzante di tutte le civiltà umane, atto innaturale solo in quanto culturale, che serve a rafforzare e confermare il senso di identità di gruppo, non a soddisfare un bisogno fisico, cosa che si può fare anche in piedi davanti al frigorifero o seduti sul divano.

Natura e cultura nei libri per bambini
Il conflitto tra natura e cultura è evidente in molte opere per l’infanzia. Viene in mente, per esempio, Il Barone Rampante di Italo Calvino (1957), dove il giovane Cosimo, esasperato dal cibo elaborato e dal formalismo dei pasti di famiglia, sfida l’autorità paterna, rifiuta il piatto di lumache e sale, guarda caso, sugli alberi e non in camera sua. Lassù resterà tutta la vita.
Il percorso inverso, dalla natura alla cultura, caratterizza invece Pinocchio (Le avventure di Pinocchio, 1883) che incontriamo all’inizio sotto forma di tronco parlante, cioè di un elemento naturale che diventerà pienamente umano solo dopo un lungo percorso di crescita e molti incontri: la cultura, Pinocchio ce lo ricorda, prima che sui libri si costruisce attraverso valide relazioni umane.
In anni recenti è di nuovo l’atto del sedersi a tavola che segna l’ingresso nella civiltà umana del GGG di Roald Dahl. Tanto è importante il rito del sedersi insieme, che la regina d’Inghilterra fa allestire per il Grande Gigante Gentile una sistemazione speciale, su misura per lui, montando un tavolo da ping-pong sopra quattro orologi a colonna. Gli fa servire esclusivamente alimenti sottoposti cottura – uova, bacon, salsicce, caffè, marmellata e pane – tollerando perfino che il suo ospite, non conoscendo l’umano galateo, continui a “petocchiare”. Il suo diritto di cittadinanza nel mondo degli uomini, infatti, non è sancito dalla conoscenza delle buone maniere ma dall’assunzione condivisa di cibo cotto.

Appare chiaro, in conclusione, che il bambino che si siede a tavola è invitato a partecipare a un rito complesso, che impegna la mente e il corpo, i sensi e le emozioni. Se da una parte impiega anni a comprenderne tutte le sfumature, dall’altra ha bisogno di poche settimane appena per intuire che il cibo è prima di tutto un linguaggio, ovvero un ponte tra sé e l’altro, che da una parte consente di accogliere – nutrimento, affetto, cultura – e dall’altra permette di comunicare, spesso attraverso rifiuti e comportamenti selettivi, che qualcosa non va. All’adulto spetta il difficile compito di mettersi in ascolto rispettoso per accogliere decifrare il messaggio.